lunedì 22 luglio 2013

Un "tom-tom" per la coscienza

Quando si indica la coscienza come ultimo e indiscutibile traguardo della disciplina che può far assurgere ad arte il lavoro di un musicista che tale voglia definirsi, è facile trovarsi di fronte ad alzate di spalle, minimizzazioni, frasi di circostanza se non addirittura battute di scherno ("ah, e dove sta, di preciso?"); questo sempre in nome di un topos dilagante, e cioè che l'individuo artista, musicista nel nostro caso, si appropria dell'opera e la restituisce secondo una propria visione (interpretazione) tanto più importante o interessante quanto più l'interprete è talentuoso, virtuoso, stusioso, e via via "oso" elencando. Allora viene da chiedere: perché un dato personaggio è definito un grande inteprete? Molti di essi, morti o viventi, sono oggi, soprattutto in virtù di tracce registrate, consegnati a un capitolo esistenziale definito "Storia" - ovvero memoria - analogamente - e talvolta più - di molti compositori. Diversi di essi sono legati con doppio giro a specifici autori cui offrono un riferimento o confronto: Toscanini e Muti a Verdi, Del Monaco all'Otello, Karajan a Beethoven, Boulez a Stravinsky, Bohm e Walter a Mozart, Furtwaengler a Wagner, e così via. In virtù di cosa sono emersi questi legami, che si sono anche consolidati fino a riversarsi nel mito, nella leggenda? Spesso, parlando di essi, e trovando da ridire, si viene aspramente criticati per il fatto ("da quale pulpito?") di mettere in discussione veri mostri sacri, osannati da milioni di persone, senza essere noi allo stesso livello di celebrità, e nemmeno vicini! Ma neanche qualcuno che invece la celebrità l'aveva conquistata con la propria competenza e l'innegabile talento, Sergiu Celibidache, poteva permettersi di fare le pulci ai colleghi pena l'aspra condanna di giornalisti e appassionati (diciamo anche "fan") di questo o quel direttore. In sostanza si tratta di genuflettersi all'opinione di una massa che stabilisce che "quello" o "quell'altro" sono i "veri", "grandi" musicisti, mentre altri lo sono meno, "quello è bravo a fare quell'autore ma non quell'altro" e via narrando. Ricordo il dispiacere di molti appassionati di canto che ritenevano tradita la verità quando Pavarotti, Domingo e Carreras venivano additati come i tre più grandi tenori del mondo, escludendo quello che forse era realmente il migliore in un determinato periodo, cioè Alfredo Kraus. Analoga amarezza per il megafunerale di Pavarotti e il quasi silenzio di fronte alla morte di alcuni dei più grandi cantanti italiani nel mondo per decenni: Corelli, Di Stefano, Siepi, Tebaldi, ecc. (ma... e "a livella"?). Esiste il talento e la forte personalità? Esiste l'innata e prorompente musicalità? insomma la predisposizione a manifestarsi in un'arte? Indubbiamente. E indubbiamente tutti coloro che abbiamo sin qui citato e molti altri ancora lo sono o lo sono stati. E' questo titolo di merito per potersi e poterli definire 'musicisti', e più ancora musicisti storici? No, non lo è; quello è l'inizio del cammino, è il punto zero. Ma può essere anche un imbroglio! La talentuosità, la capacità innata e "facile" di padroneggiare il "gesto", come saper disegnare, imparare rapidamente a suonare, a scrivere, a intonare una melodia con bella voce, attraggono immediatamente tutti coloro che tale dono non hanno (o non sanno di avere). A ciò si può aggiungere una personalità particolarmente carica, estroversa, una valida dialettica, una capacità di "vendersi", di apparire, di gestire la propria immagine. Enormi talenti sono "caduti" per non aver saputo gestirsi, così come modesti suonatori si sono guadagnati un posto in proscenio in virtù da doti "scenografiche", polemiche, dialettiche e quant'altro. Alla base di tutto c'è sempre e solo una cosa: riconoscere. Riconoscere il fumo dall'arrosto, riconoscere il grande talento dal volonteroso dilettante, riconoscere il destro imbroglione dal valido maestro della propria disciplina. Chi ha la fortuna di possedere valide doti nell'arte che sente la forza di intraprendere, può scegliere se svenderle al primo offerente, in cambio sicuramente di argomenti non da poco: denari, pubblicità, celebrità, vita mondana, oppure se intraprendere un percorso verso la conquista di una coscienza autenticamente artistica, cioè verso il sublime, il vero. Non significa necessariamente rinunciare agli allori, ma significa rinunciare a quel tipo di successo in quanto obiettivo, finalità. La finalità è nell'arte stessa, cioè in quella libertà nel vero, che non si deve confondere, come purtroppo molti credono, nella libertà di fare ciò che si "ritiene", ma nel fare ciò che si deve, cioè cio che è. Ci vuole un tom-tom; sì, una bussola che guidi alla rivelazione, all'assunzione della coscienza allo stato vigile; una potente mappa ce l'ha fornita Sergiu Celibidache, e l'ha chiamata Fenomenologia musicale. Può valere la pena discutere se ci sia di meglio o comunque altro; sappiamo come per raggiungere una certa località ci possano essere più soluzioni, ma la questione è che tale percorso deve essere valutato, studiato, proposto, esperito e verificato, dopodiché si potrà fare un confronto e decidere quale sia il più efficace. Il problema, grosso, è che nessun altro per ora ci si è messo e ci ha provato. Dunque questi criteri che ci guidano alla conquista della libertà, si potranno discutere, ma se non si prova a seguirli non li si dovrebbe rifiutare a priori, perché tale atteggiamento non può che definirsi pregiudizio, mancanza di volontà, sciatteria, superficialità, e in nome certo di virtù poco onorevoli. Il tom tom c'è... agli uomini (di musica) di buona volontà il volerlo utilizzare o vagare senza meta, illudendosi e illudendo di fare qualcosa di importante.

mercoledì 17 luglio 2013

Criteri 8

IL MAESTRO 2

Nel primo post sul Maestro ho parlato della figura dell'allievo e delle sue peripezie alla ricerca del Maestro. In questo secondo post l'attenzione sarà tutta dedicata al Maestro: quale sia la sua funzione e quando si esaurisce. Ho accennato al fatto che il Maestro serve a dare dei permessi. In virtù di cosa li può dare: ha i “vissuti” accreditanti che glielo consentono. E' passato prima dell'allievo attraverso le situazioni e ne ha viste tutte le possibili sfaccettature, è in grado quindi di valutare momento per momento la adeguatezza di qualunque scelta, la cosa giusta al momento giusto. Che sia la scelta giusta il Maestro lo può determinare per il fatto che rispetto all'allievo è capace di vedere contemporaneamente la messa in gioco di tutti i criteri, di tutti gli elementi. L'allievo è inevitabile che essendo in un percorso di apprendimento abbia due difficoltà con le quali confrontarsi: non ha ancora sotto mano tutti gli elementi ( li sta ancora incamerando e sperimentando) e non è ancora capace di considerarli tutti contemporaneamente per elaborare una sintesi che sia ogni-elemento-comprensiva. Sarà portato ad avere una visione parziale credendo che il criterio che sta studiando in quel periodo sia la chiave risolutiva, il parametro efficace per una corretta appropriazione. Il Maestro , sempre quello con la M maiuscola, conoscendo invece tutti i criteri opera LA SINTESI, quella definitiva, quella che non ammette alternative, insomma si approssima alla verità, la verità che è per sua definizione UNA e non molteplice. L'Europa affonda le sue radici nella cultura greca. Il dettato fondamentale di quella cultura è stata la famosa esortazione - Γνῶθι σεαυτόν, gnôthi seautón iscritto sul tempio dell'Oracolo di Delfi , “nosce te ipsum”, conosci te stesso. Che c'entra? C'entra c'entra. Serve a fare la differenza fra sprovveduti o improvvisati sedicenti maestri e il Maestro. Perché? Ne vado ad esplicitare le implicazioni. Da un lato abbiamo maestri che pensano all'allievo come un vaso vuoto da riempire e come in un collegamento fra vasi comunicanti pensano di essere loro il vaso pieno che dovrà riversare il proprio contenuto nel vaso vuoto. Ci sono altri invece, e qui siamo in presenza dei veri Maestri, che ritengono che la differenza fra allievo e Maestro non sia in termini pieno/vuoto, ma pieno...pieno la differenza fra i quali è soltanto...potenziale. In sostanza il Maestro considera l'allievo già pieno ma ancora incosciente di esserlo e allora sa di dover agire maieuticamente per fare in modo che l'allievo faccia venir fuori ciò che già possiede e non affaticarsi a riempire di ...sè stesso, ciò che considera un vaso vuoto. E qui arriviamo alla figura somma di Maestro, quello capace di dare il permesso definitivo: il permesso di prendere coscienza del fatto che “Maestro” lo è ciascuno di se stesso. Quando arriva a questo il Maestro ha esaurito il suo compito ed inevitabilmente deve scomparire. Assolta questa funzione di temporaneo compagno di cammino, deve togliersi di mezzo e lasciare che il neocosciente Maestro cammini con le proprie gambe. Nel 1972 è comparso il libro di Sheldon B. Kopp “Se incontri il Buddha per la strada uccidilo” - Il pellegrinaggio del paziente nella psicoterapia. Ne consiglio vivamente la lettura a coloro che fossero interessati ad approfondire il rapporto Maestro/ allievo secondo quanto ho scritto in questo post.

martedì 16 luglio 2013

Criteri 7

IL MAESTRO. Argomento delicatissimo. Qui siamo tutti coinvolti, sia i professionisti che gli amatori. Una premessa è necessaria: per comodità di esposizione distinguerò fra due figure cambiando la lettera iniziale: Maiuscola ( Maestro ) per indicare la figura degna di questa qualifica, minuscola (maestro) per indicare tutti gli altri. Diciamo subito che la scelta del Maestro è il frutto di un percorso. Le figure coinvolte sono...due: l'allievo e il Maestro. Si potrebbe pensare che anche la fortuna giochi un suo ruolo in questa interazione umana, ma...andiamo con ordine. ALLIEVO. L'allievo è un essere umano che non ha ancora preso piena coscienza di sé e delle proprie capacità, sia di quelle evidenti che, cosa ancor più delicata, di quelle sopite, possedute ma non esplicitate.

Cosa fa allora questo essere umano? Si mette a cercare : cerca stimoli che lo aiutino a comprendere meglio se stesso, cerca informazioni, ha bisogno di a(f)fidarsi ( fidarsi di...) a qualcuno che lo aiuti a comprendere, a prendere coscienza; in definitiva però è alla ricerca di qualcuno che gli dia..permessi. Il permesso di credere in se stesso, di credere nelle proprie capacità, di verificare che ciò che lui pensa di sé è corretto, che esprimersi è una cosa "sana", che sentirne l'urgenza e assecondarne l'esigenza non è un atto eccessivo, ma al contrario UN DIRITTO INDIVIDUALE ASSOLUTO, quello che pone l'uomo sulla via della libertà e della verità che sono i bisogni più importanti che caratterizzano l'essere umano, le sue pulsioni spirituali ontologiche, le ragioni stesse del suo esistere. Questa prima fase, per un allievo, è un calvario. Decidere chi eleggere a proprio Maestro è molto difficile. Nell'allievo il bisogno di operare un transfert ( mutuo il termine dalla interazione paziente/terapeuta in psicanalisi) è prepotente, talmente prepotente che spesso si sceglie un maestro più per rispondere a questo bisogno di transfert che in virtù di una ponderata serie di considerazioni oggettive sulle sue reali capacità umane e competenze specifiche. Che in gioco vi sia un transfert è inevitabile, direi quasi imprescindibile; come potrei infatti accettare le indicazioni, gli stimoli, le osservazioni, le critiche, spesso anche durissime che mi venissero da una persona di cui non mi fido ciecamente? "Il mio...Maestro" è la frase che sintetizza tutto questo, conosciuto o sconosciuto che sia, per ciascuno ad un certo punto arriva la decisione di eleggere a proprio personale Maestro quello lì, quella persona identificabile, riconoscibile, incarnata. Perché ...calvario? Ma diciamola tutta: ma....di quali criteri potrò mai disporre all'inizio della mia ricerca, io allievo, per fare una scelta ponderata? Ancora una volta ecco ripresentarsi il problema di fine e inizio strettamente connessi. La situazione ideale sarebbe quella, prima di operare il processo di transfert, di valutare una rosa di potenziali maestri per poi sceglierne uno come Maestro. ( ...mentre scrivo ripenso a quello straordinario passaggio del film di Massimo Troisi "Ricomincio da tre" che mette in bocca a Lello Arena la particolareggiata spiegazione della differenza fra "'o mirachele " intendendo con questo i miracoli correnti, l'ordinaria erogazioni di piccoli benefici quotidiani, quelli che in fondo un santarello qualunque non nega al proprio devoto, e " 'O MIRACHELE" intendendo con questo l'evento straordinario che si pone al di sopra di qualunque possibile fraintendimento). Anche qui abbiamo il maestro , l'onesto e capace ( o, a volte...) compitatore, il ragioniere della musica che cerca di trasferire come può un corpus di indicazioni che lui stesso non si è mai permesso di rivivere criticamente, così le ha ricevute dal suo maestro e tali e quali le ripropone al proprio allievo. Ci sono alcune frasi/test per stanare questi maestri, che se fossero conosciute per tempo, eviterebbero a molti allievi di penare per arrivare ad identificare il proprio Maestro. Una frase antididattica per eccellenza è ad esempio :"CERTE COSE O CE LE HAI O NON CE LE HAI". In questa ci sono termini assai vaghi, ma si sa, più si sta nel vago e meno si assumono responsabilità, anzi, in questo caso si creano nel malcapitato allievo straordinari dubbi e qualche senso di colpa che non guasta mai. Ci sarebbe infatti da chiarire intanto quali sarebbero queste..."certe cose" e conseguentemente chi sarebbe la figura qualificata accreditato a certificarne il possesso. L'altra frase interessante è "CI SONO COSE CHE NON SI POSSONO SPIEGARE". Questa è risolutiva per determinare la scelta del Maestro: chi la dice si mette a nudo. Il momento, il periodo del rapporto nel quale viene detta fa la differenza. Se è dopo poco tempo che il rapporto è iniziato, e allora andiamo malissimo. Qualora dessimo per accettato che realmente ci siano "cose che non si possono spiegare", questa frase andrebbe detta alla fine di un tragitto nel quale però si siano prima spiegate TUTTE le spiegabili. Se viene detta quasi all'inizio in realtà cosa sottintende: ci sono cose che "IO" ( colui che la dice) non so spiegare, e allora lì capisci che quello non è nemmeno un maestro ( sempre con la "m" minuscola) ed è arrivato il momento di rivolgersi altrove. Per ora mi fermo qui per lasciar sedimentare, in chi avrà la bonarietà di leggere queste mie righe, le considerazioni qui esposte.

Criteri 6

GLI INGANNI DEL LINGUAGGIO – La definizione di MUSICA nel dialogare con Celibidache è sempre stata un tabù. Ogni volta che in una frase qualcuno degli allievi arrivava alla parola “musica” si apriva ...un contenzioso. Immediata era la reazione di Celi : “Ah...ah...da qui non so più. Cos'è la musica? Essendo un divenire , fissarla in una definizione...”la musica è questo” significherebbe limitarne il portato di libertà che essa contiene. Nel definirla pretenderemmo di circoscriverla , contenerla in una definizione”.
Alla fine della sua vita, però, Celi, un aiutino ce l'ha voluto dare. Alla fine del film “Le Jardin de Celibidache” dice ad un allievo ...”musique c'est toi” [la musica sei tu]. Come sempre accade le parole di Celibidache vanno rimeditate, bisogna farne oggetto di riflessione sondandone tutte le implicazioni. Che cosa ci ha voluto allora suggerire, quale stimolo di pensiero ne possiamo trarre? Io ho connesso la frase all'altro principio che Celi ci ha ripetuto allo sfinimento :”il suono non è musica, ma può diventare musica”. Per molti sembrerebbe una frase ad effetto, altri la criticano, ritenendola una banalità. Io le ho connesse e quel che ne viene fuori è che...”la musica è la umanizzazione del suono”. L'essere umano ha uno strumento di approccio alla realtà: la coscienza.
La fenomenologia musicale che Celibidache ha praticato e concretizzato per quasi tutta la sua vita si pone l'obiettivo di sondare, prima, e rendere espliciti, poi, gli effetti che il suono ha sulla coscienza umana. Se prestiamo attenzione alle straordinarie quanto “generose” riflessioni che il Maestro ci ha lasciato il quadro si chiarisce. Ad esempio nella lezione alla RTSI ad un certo punto dice: “ ...e in questa successione di suoni cos'è che si “muove” , che delinea un percorso...i suoni vero? “ - e tutti i presenti annuiscono - “no, è la coscienza. SORDI SIETE”. Cosa voglio significare dicendo “musica = umanizzazione” del suono?
Il linguaggio ci inganna. Quando diciamo “faccio musica” è come se dessimo per scontato che la musica è qualcosa di esterno a noi e la posizione, la prospettiva nella quale ci porremmo sarebbe: da un lato c'è la musica, dall'altro c'è l'essere umano che la studia, se ne appropria, la...fa. Invece Celi, nel dire “LA MUSICA SEI TU”, stravolge questa prospettiva. Quello che noi descriviamo come “far musica” andrebbe più correttamente definito come:”riconosco, sperimento, prendo coscienza attraverso il materiale suono delle modalità di funzionamento della coscienza che grazie alla interazione con il suono, dagli effetti che questo genera su di me, ho l'opportunità di “vivere”, di rendermene cosciente.
In questo senso, con queste implicazioni di pensiero ho proposto questo gruppo. Questo CRITERI 6 vuole essere un contributo a che si chiarisca meglio e si approfondisca la differenza fra la parola “SUONARE” e la parola “MUSICARE”. Chi ...”suona” riduce l'essere umano ad una apparizione materiale, effimera, caduca. Viceversa chi “musica” si propone come un essere umano che accetta di riconoscere in se stesso l'esistenza anche di una parte spirituale, universale, immortale che con un atto di amore, di incontro con l'altro , rende disponibile a che sia riconosciuta e condivisa.

Criteri 5

LA DISPOSIZIONE DEGLI STRUMENTI IN ORCHESTRA. Fra una sedicente "alla tedesca" o una improbabile "alla non so che e perché", credo che da privilegiare dovrebbe essere quella dettata da ragioni ...diciamo così...umano/acustiche. Di cosa sto parlando? Ma sì, qual'è l'ordine da seguire nella disposizione degli archi e poi degli altri strumenti dell'orchestra? Negli ultimi decenni si è assistito ad una sfolgorante pletora di disposizioni "creative", dettate da ancor più creativi presunti criteri. Ad esempio (direttore che guarda l'orchestra) primi violini a sinistra e a seguire...viole, violoncelli e secondi violini...contrabbassi....a piacere. Oppure: primi, secondi celli e viole. Oppure primi celli, viole e secondi.
Per dirla tutta "alla come capita senza motivo". Quello addotto il più delle volte è "perché altrimenti... non si sentono i violoncelli" (sic!) e allora bisogna rivolgere le casse armoniche verso il pubblico.
Ma vedi un po' che razza di ignoranza dobbiamo subire. Ma dico io: ma se non si sentono i violoncelli che ne è allora di coloro che da sempre hanno occupato i posti centrali nella disposizione consueta primi, secondi, viole , celli e contrabbassi dietro ai violoncelli. Voglio dire tolti dal centro i secondi o le viole, a maggior ragione, che ne sarà dunque di loro?
Ma il bello è che la ragione che sta dietro alla disposizione non dovrebbe essere quella di privilegiare ..."l'emergenza" di questo a scapito di quello, macchè.
La ragione è un'altra. Il risultato complessivo non viene senza il contributo dei diretti interessati. Si deve dunque ribaltare la prospettiva e mettersi in questo ordine di idee: chi ha la potenza maggiore di emissione? I bassi ( c.bassi e celli). Ergo il singolo strumentista ha la responsabilità di graduare il proprio suono per non COPRIRE quello di strumenti più deboli. Per fare questo deve stare in una posizione che gli permetta di sintetizzare ACUSTICAMENTE tutti gli altri così da poter graduare la propria emissione. Se i celli stanno dopo i primi e cioè fra primi e secondi o viole che sintetizzano? NULLA. Se stanno FRA viole e secondi che sinteizzano? NULLA: si rivelano i classici "asini in mezzo ai suoni". La posizione tradizionale è l'unica, invece, che consenta al singolo strumentista di cello e contrabbasso avendo difronte a sè la sintesi di tutti gli altri, e soltanto in virtù di questo, di poter graduare la propria contestualizzazione.
Questo è ancora più evidente in quartetto d'archi. Metti in mezzo il cello con la motivazione del "farlo sentire di più". Ma che bravo! Così hai ucciso ogni possibile quanto peraltro già difficilissimo equilibrio data la mancanza di partita fra la potenza di suono di un cello e gli altri tre. Ergo soltanto nella successione primi, secondi, viole, celli e bassi si dà la condizione basilare e cioè quella di consentire a cellisti e c.bassisti di avere la sintesi di tutti gli altri: condizione imprescindibile, l'unica che gli consenta di calibrare la propria contestualizzazione.
Purtroppo l'ignoranza crassa lascia spazio alla stupidità e al vuoto di argomentazioni ininfluenti - "così i celli si sentono di più" - ma il triste è che molti sono coloro che acriticamente, in virtù di una semplice dicitura/definizione (ad esempio "disposizione alla tedesca") credono di vederne così legittimata la dignità di esistenza. Forse è sempre valido il monito di Celibidache così come lo dice chiaramente nella famosa lezione della RTSI più volte citata: "SSORDI SIETE!"

Criteri 4

LA SCELTA DEL TEMPO DI ESECUZIONE. Ahi , ahi. Qui la cosa si fa seria. Questo è il criterio principe dei criteri perché sono in grado di notarlo ...tutti. Per tutti intendo la stragrande maggioranza degli ascoltatori di musica che non ha ricevuto alcuna educazione musicale da questo Stato tranne quella modesta infarinatura di termini, e qualche data, che sarebbe l'educazione musicale impartita nella scuola media.

Mettendo a confronto esecuzioni diverse di uno stesso brano percepiscono immediatamente quale sia quello eseguito "più veloce" rispetto a quello "più lento". Purtroppo, però, chi mai si è premurato di spiegare a questi cosa sia il ...tempo in musica? Nessuno. Tant'è vero che i più usano indifferentemente i termini "tempo" e "velocità" come se fossero, praticamente, la stessa cosa.

Se passiamo agli studenti di musica di Conservatorio e facciamo anche qualche rapido sondaggio fra docenti e professionisti, anche qui, purtroppo, perlopiù è o incomprensibile farfugliamento o decisamente scena muta per quanto riguarda la capacità di chiarire cosa si intenda per...tempo...in musica.

Eppure la scelta del tempo di esecuzione è la scelta prima ( ...ma anche ultima se teniamo conto di quanto scritto in CRITERI 3, "fine contenuta nell'inizio"). Soltanto a seguito della scelta operata potrai iniziare ad emettere suoni cercando magari di farli diventare musica.

Il tempo , in musica, non è una misura come la velocità ( tot eventi in un dato tempo, ad esempio 100 chilometri in un'ora) bensì una CONDIZIONE, quella che mi consente da una molteplicità di accadimenti di arrivare a fare un UNO. Questo da cosa deriva? Dalla nostra natura, bisogna farsene, mo' ci vuole, "una" ragione. E questo come si realizza? Quando arriviamo a cogliere la relazione che esiste fra la fine e l'inizio e viceversa. Anzi ci sarebbe da chiedersi, nel corso di un brano di musica, quale momento non viva della relazione strettissima con la fine e con l'inizio. Ogni battuta, infatti, in che cosa trova la sua ragion d'essere se non quale conseguenza di ciò che l'ha preceduta e premessa per ciò che la seguirà?

Sembra quasi scontato, ma la confusione oggi è tale per cui specialmente dalla scelta dei tempi di esecuzione si capisce benissimo che regna il massimo del disorientamento. Quanti esecutori fanno mente locale a questo tipo di considerazioni per arrivare alla scelta del tempo "GIUSTO" di esecuzione?
Le prassi correnti sono varie: a) imitare il tempo scelto da altri. Si mette un disco dell'"interprete" che ..."... piace" e poi si tenta di attenervisi. b) Usare il metronomo attenendosi all'indicazione ove prescritta. c) Fare "tesoro" dei propri limiti esecutivi: si cerca il famoso "specchietto". Si intende per specchietto quel punto del brano che risulta di difficile esecuzione tecnica e si adotta come "tempo" generale del brano quello al quale quel determinato punto risulta eseguibile. d) "così me l'ha insegnato il mio maestro" (sic!)

Ora proverò invece a proporre qualche stimolo per riflettere, specialmente per i non addetti ai lavori, così quando assisteranno ad un concerto avranno , spero, qualche criterio in più per orientarsi.

Il primo elemento col quale un esecutore deve necessariamente fare i conti è l' ACUSTICA del luogo nel quale avviene l'esecuzione. Se è un'acustica "lenta", ad esempio una cattedrale nella quale un suono una volta emesso ci mette più di 3 secondi per estinguersi, allora una esecuzione musicale sarebbe di fatto "impossibile". Il tempo di esecuzione andrebbe talmente rallentato da rendere praticamente impossibile cogliere il nesso che lega un evento con il successivo.
Se invece siamo in una acustica secca, un ambiente cioè che per presenza di un eccesso di elementi fono assorbenti, tende ad estinguere il suono in un tempo brevissimo diciamo meno di un secondo e mezzo, in questo caso il tempo di esecuzione dovrebbe essere talmente rapido che sarebbe praticamente impossibile ..."avere il tempo" di cogliere il nesso fra un fenomeno e il successivo.
Una "buona" acustica è quindi quella che permette agli armonici ( si tratta di fenomeni collaterali che si formano come sub-vibrazioni del suono fondamentale derivanti dal suddividersi della corda quando vibra) di manifestarsi senza che questo comprometta il nesso fra un fenomeno e il successivo.

Cosa deduciamo da queste semplici ma concrete considerazioni: il tempo in musica non è una "misura" ma una CONDIZIONE, quella che mi permette , in base alla quantità di materiale messo in essere dal compositore, di cogliere il nesso che lega fra loro i fenomeni. "Poco" materiale---> tempo rapido, "molto" materiale----> tempo lento. Ovviamente queste due espressioni lento e rapido si possono usare soltanto per chiarire meglio il concetto perché in realtà nell'uno e nell'altro caso si tratterà soltanto di tempi...GIUSTI relativi alla quantità di materiale.

Piccolo ulteriore chiarimento: poco o tanto materiale che significa? Se in un brano abbiamo molti cambi armonici, molte figurazioni rapide è evidente che ci troviamo difronte ad un ...ADAGIO, se viceversa vengono toccati soltanto i gradi armonici fondamentali ( I - IV - V ) , quasi sicuramente siamo in presenza di un ...ALLEGRO.

Due frasi-stimolo di pensiero per concludere:
"in un Allegro di sinfonia bisogna toccare soltanto i gradi fondamentali (I - IV - V ) - J.Haydn -

"Dans la lenteur il y a la richesse" [ Nella lentezza c'è la ricchezza] - S.Celibidache -

Criteri 3

" La fine contenuta nell'inizio "

Della fenomenologia musicale,la disciplina che per arrivare all'oggettività studia gli effetti del suono sulla coscienza umana, disciplina insegnata e praticata da Sergiu Celibidache praticamente per tutta la sua vita musicale, questo della FINE CONTENUTA NELL'INIZIO è uno degli assunti più difficili da "vivere". E' il rapporto fra potenzialità ed esplicitazione. Le implicazioni a cui dà luogo sono molto interessanti e anche assai vincolanti. Quello che qui mi interessa, in questa esposizione di criteri utili soprattutto ai non addetti ai lavori per comprendere meglio e giudicare il lavoro del direttore d'orchestra, è ciò che accade quando il direttore sta per iniziare, con quale gesto avvia il brano di musica. La situazione. Abbiamo questi tre momenti: il "silenzio" prima dell'inizio, un gesto iniziale del direttore e poi l'avvio di quel tragitto della coscienza umana che viene comunemente definito "brano di musica".

I direttori hanno necessità di fare qualcosa per far sì che l'esecuzione si avvii, parta. In omaggio al principio della "fine contenuta nell'inizio", a cosa possiamo quindi pensare? Che il gesto del direttore debba in qualche modo contenere fin dall'inizio indicazioni strettamente collegate al brano che sta per essere musicato. Purtroppo è assai raro rilevare nel gesto del direttore l'unicità, il legame uni-versale ( e non poli-versale quindi ambiguo, non specifico) unico, fra l'inizio e ciò che viene immediatamente dopo l'inizio.

Qui abbiamo due tipologie fondamentali di direttori: abbiamo i DIRETTORI e gli ..."INTERRUTTORI".
DIRETTORI. Il loro gesto iniziale contiene nel "levare", il movimento che precede l'attacco del suono, elementi inequivocabili che danno ad ogni singolo componente dell'orchestra questa serie di indicazioni: precisa collocazione dell'attimo nel quale iniziare, tempo di esecuzione, dinamica ( forte, piano), tipologia di emissione (staccato, legato). Le più importanti sono le prime due: quando attaccare e a che tempo si procederà nell'emissione dei suoni successivi al primo.
Per ottenere questo risultato è necessario che sia presente nel gesto una "relazione" fra il movimento in levare e il movimento in battere. L' identità c'è un solo mezzo che sia in grado di garantirla: la proporzione. Per proporzione si intende il rapporto fra l'energia sprigionata nell'impulso iniziale e il conseguente rimbalzo del braccio. Andare oltre nella spiegazione sarebbe come dire che iniziamo un corso di tecnica direttoriale seduta stante.

INTERRUTTORI. Purtroppo sono la maggioranza dei direttori. Senza alcuna poetica di riferimento e votati soltanto all'esaltazione e all'affermazione del proprio narcisismo questi showmen si limitano maldestramente a dare una sorta di "pronti-via" all'orchestra, diventando quindi di fatto degli interruttori poco interessati a che vi sia un nesso UNICO fra gesto e musica. A loro interessa soltanto fare in modo che l'orchestra "parta", così poi , accompagnati da un sottofondo garantito dall'orchestra che si arrangia a suonare praticamente abbandonata a se stessa potranno finalmente esibirsi nella loro narcisistica pantomima che avranno l'accortezza di interrompere quando i suoni saranno finiti.
Come riconoscere un ... INTERRUTTORE? C'è un gesto che li "svela", è quello che risponde alla denominazione di "una fuori", gesto al quale ricorrono anche stars indiscusse dello show business.
Per "una fuori" si intende una battuta o parte di essa di cui vengono indicati nello spazio tutti o parte dei movimenti che la caratterizzano. Ammettiamo che il brano sia in quattro quarti, i più insicuri batteranno tutti e 4 i movimenti ( un-du-tre-quà - uno due tre quattro - e questa è la famosa "una fuori") con l'intento di dare all'orchestra l'indicazione ( il ritorno del prossimo "un") del momento in cui iniziare. Quelli più praticoni forse perché animati anche da un certo senso di inconscia "vergogna" della loro inadeguatezza prima di tutto tecnica , ma quel che è più grave, musicale, invece di scandire a vuoto tutti e 4 i movimenti, si limitano ad indicare gli ultimi due scandendo nell'aria un... "trè-quà"(tre-quattro).
Tutto ciò ricorda un po' il famoso "batto quattro" che precedeva l'inizio di molti brani di musica leggera o i colpi scanditi, una bacchetta contro l'altra, dal batterista di molti complessi jazz per dare poi avvio all'esecuzione.

E io sto qui a parlare di "fine contenuta nell'inizio" e di coerenza fra gesto e contenuto che questo dovrebbe rappresentare. Probabilmente sono in controtendenza rispetto all'andazzo generale, ma scusatemi, non riesco a contenere il mio bisogno di chiarezza e soprattutto di verità cercando di combattere la cialtroneria che anche in me è , come in tutti, presente. La differenza sta nel rendersi sempre più consapevoli dei propri limiti e cercare di porvi rimedio superandoli.

Criteri 2

ORIENTARE LE RIPETIZIONI

In un brano di musica un espediente usato dal compositore per costruire il suo percorso di coscienza è quello di avvalersi di ripetizioni. Ripetizioni, sì, ma...da che punto di vista?
Per "ripetizione" comunemente si intende ripetere lo stesso materiale : note, gruppi di note, frammenti melodici, sequenze di accordi ma da un punto di vista strettamente fisico, appunto, materiale.

In musica però , oltre al suono che è soltanto l'aspetto fisico, materiale, entra in azione un altro elemento: la coscienza umana. A questo livello la ..."ripetizione" non esiste.

Ogni elemento è unico e questo è determinato dalla successione degli eventi. Anche tre note della stessa altezza ripetute, lo sono, ripetute, soltanto da un punto di vista fisico. Dal punto di vista della coscienza, invece, danno vita ad un processo "tensivo".

Prima della prima nota non c'era nulla, prima della seconda c'è la prima e prima della terza ci sono la prima e la seconda. Che cosa determina questo fatto? Che ogni evento lascia una traccia nella nostra coscienza e questa diventa un riferimento per gli eventi successivi. Ogni battuta all'interno di un processo musicale ha una funzione "unica": è allo stesso momento CONSEGUENZA di tutto ciò che l'ha preceduta e PREMESSA per tutto ciò che seguirà. A questa funzione non si sottrae quindi nemmeno una ripetizione.

Concretamente questo che cosa richiede? Un chiarimento da parte dell'esecutore: la "ripetizione" sta contribuendo ad "accrescere" la tensione, sta portando "a più" e quindi va suonata un po' più forte, o viceversa sta attenuando la tensione e quindi "porta a meno" e suonata più piano?

Il primo compito del nostro sedicente interprete ma in realtà ....riconoscitore, sarebbe quello appunto di "riconoscere" le ripetizioni e regolarsi di conseguenza chiarendone l'orientamento ( a più o a meno) attraverso un uso appropriato della dinamica ( forte, piano, crescendo, diminuendo). Infatti non basta riconoscere quali siano gli elementi che si ripetono e differenziarli senza criterio tanto per differenziare. Occorre invece comprendere prima il percorso tensivo del brano, soltanto allora si sarà in grado di orientarne in modo appropriato le ripetizioni.

Se un musicista, nel nostro caso un direttore, non ci rende conto di questi parametri, di fatto ci sta ingannando. Sta spacciando per lavoro "al servizio della musica" il suo narcisismo, la sua soggettività esasperata, in pratica sacrifica un autore e le sue creazioni universali per immolarle sull'altare della sua...ignoranza che gli impedisce di cogliere cosa ci sia di oggettivo in un brano di musica andando alla ricerca di "come lo sente lui" in virtù di non si sa quale diritto ad uccidere lo spirito esaltando sempre e soltanto la caducità della materia.

Chi non orienta le ripetizioni non è un musicista , è un suonatore che vuole trascinare anche noi nel buio della coscienza nel quale si trova proponendoci una serie infinita di SIGNIFICANTI senza mai darci modo di cogliere SIGNIFICATI.

Chi "SUONA" rovina anche te, evita di ascoltarlo e cerca qualcuno che...MUSICHI!!

Criteri 1

Chi sta dirigendo veramente?

Domande e risposte.
D - All'esecuzione di un brano possono partecipare più direttori?
R - Se sul podio c'è...un DIRETTORE, è lui che dirige, naturalmente. Se sul podio c'è ... insomma c'è uno che dice o pensa di dirigere, e allora...
D - Ma come...non dirige sempre il/un direttore?
R - Macchè. Meno di quello che si potrebbe pensare.
D - C'è un sistema per capirlo?
R - Assolutamente sì!
D - Qualche esempio?
R - Figurazioni acefale. Si intende per figurazioni acefale quei gruppi di note nei quali la prima nota è sostituita da una pausa, ad esempio il famoso attacco della quinta sinfonia di Beethoven: un-ta-ta-ta /ta-aaaaaa.
Ecco quell' "un" sta per una pausa. Su quell' ..."un" il direttore deve imprescindibilemte dare un impulso, in pratica uno scaricamento di energia che consenta a chi suona, in modo relazionato alle tre note che seguono, di ricevere una indicazione inequivocabile su quali ne siano il TEMPO, la FORZA e la PRECISA COLLOCAZIONE uguali per tutti coloro che suonano insieme.
D - Bene. Chiaro. Ma...allora? Non è il direttore che deve erogare l'impulso?
R - Meglio il condizionale: dovrebbe...
D - ???
R - Alcune considerazioni per capire meglio. Quell'impulso è IMPRESCINDIBILE. Provi lei a pensare a quell'attaco. Riuscirebbe a pronunciare con la bocca quei tre suoni senza farli precedere da un...impulso che le faciliti l'emissione e che lei stesso si darebbe istintivamente con la testa o con un piccolo movimento del suo polso?
Questa è la riprova del fatto che quell'impulso non è un optional, è una prerogativa direi...ontofisiologica, insomma ci vuole e basta!
Ora immagini un direttore, il cui compito primario sarebbe proprio quello di dare questo famoso impulso, che sia poco chiaro o assolutamente inadeguato alla bisogna. Essendo, l'abbiamo detto prima, imprescindibile, necessario, ineliminabile, cosa accade? Accade che l'orchestra, avendo verificato fin dalla prima prova che il direttore non c'è, lo...surroga, ne fa le...veci.
D - In che modo?
R - Momento per momento, i più sensibili fra i componenti dell'orchestra, o coloro che sono per antonomasia le "crocerossine" di turno, erogano l'impuslo del tutto istintivamente: verificato che il direttore di turno è inesistente, con la testa, con lo strumento o ciascun per sè battendosi il piede, suppliscono per sè o a piccoli gruppi alla mancanza di impulso da parte del direttore.
D - C'è un modo per verificare tutto questo che mi sta dicendo?
R - Certamente. La prossima volta che le capiterà di "vedere" una orchestra, osservi attentamente i movimenti dei musicisti, provi ad esempio a guardare...i piedi, le spalle , le teste, scoprirà un mondo, un po' come con una telecamera dotata di un obiettivo particolare, scoprirà un pullulare di...arti in movimento che suppliscono un ...arti-sta morto.