mercoledì 5 maggio 2010

"per andare dove vogliamo andare..."

Ricordate la famosa frase di Totò in Totò, Peppino e la malafemmena: "Scusi, per andare dove vogliamo andare, da che parte dobbiamo andare?" Ecco, molti (presunti) musicisti non si pongono nemmeno questa domanda quando si accingono ad eseguire un brano musicale (e allora meglio definirli "suonatori" che musicisti). Sanno, dagli studi compiuti, che un brano musicale è, almeno per quanto riguarda tutto il repertorio classico, composto da temi, sviluppi, melodie, armonie, o si basa su forme di vario tipo, tutte codificate nel tempo e contenute in manuali ben ponderosi. Spesso si sente dire da qualche appassionato: "eh, i vecchi musicisti magari non avevano la tecnica che c'è oggi, ma sapevano dare al brano una visione d'insieme che oggi manca". Ecco, molto bene, una frase interessante e intuitiva. Ma come fare a capire che un musicista ha colto davvero questo obiettivo, e ... in che modo? Ovvero come fa un musicista a dare una visione d'insieme al brano? Ed è questa davvero la meta del lavoro? Noi riteniamo di sì! Un brano è in primo luogo un'unità. Ma non è e non può essere unità precostituita, cioè non esiste prima che venga eseguito, e solo in quel momento ha la chance di diventare un'unità, se l'esecutore, o il "regista" dell'esecuzione ha coscienza di questo scopo e possiede gli strumenti per raggiungerlo e sa metterli in pratica. Non è raro ascoltare da parte di musicisti anche diplomati, anche di un certo pregio tecnico, anche in sale importanti, magari osannati da certa stampa e da gruppi di "fan", esecuzioni che altro non si rivelano che note dopo note. Giuste, espressive, magari, pulite, forse, ma... dove vogliono andare? Qualcuno può rimanere perplesso di fronte a questa domanda. Le note vanno da qualche parte? No, non le note, non i suoni, ma... la Musica. Come abbiamo detto in premessa, e come contiamo di dimostrare, il suono non è musica, ma può diventarlo. Dunque un brano non è un semplice insieme di note, ma non è nemmeno un insieme di temi, sviluppi, allegri, andanti, accelerandi e ritardandi, piani e forti... E' qualcosa di più semplice e più complesso al tempo stesso. Un organismo dove, se il compositore ha saputo fare Arte, tutto si trova in relazione. Tra una moltitudine di note, il compositore ha scelto una prima, quindi una seconda nota, e ancora una terza e così via: a caso? No, la seconda nota è stata scelta sulla base della prima, e la terza sulla base delle prime due, e così via, in un percorso che solo matematicamente può sembrare ammettere infinite variabili. Se pensiamo che la 100^ nota è il "frutto" delle 99 precedenti, ci figuriamo una complessità difficilmente razionalizzabile. Però esiste la possibilità di ricostruire questo percorso, dare al binomio tra la prima e seconda nota una "unicità", che dà 'senso' (nell'accezione di 'direzione') alla terza, che diventerà, insieme alle prime due, altra unicità che indicherà la direzione verso la quarta, e così via. Questa visione può dare un'idea di complessità insostenibile. In realtà la pratica esecutiva e di ascolto può, in tempi che non possiamo illusoriamente dire brevi, ma nemmeno infiniti, sviluppare quella coscienza della Musica che permette di cogliere i legami, le relazioni, prima tra le parti vicine poi sempre più lontane fino a quel traguardo straordinario, più volte richiamato da Celibidache nelle proprie interviste, e cioè mettere in relazione l'inizio con la fine, ovvero ancora cogliere il senso complessivo del brano fino dalle prime note.
Questo però ancora non basta. Come fa il brano a avere una propria "vita"? Qual è l'energia che lo sostiene?

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